L’ultimo locale a sinistra prima del lungomare di Cattolica. Detta così, ricorda un po’ la storia di Peter Pan e dell’isola che non c’è, “seconda stella a destra…” Ma la Locanda Liuzzi c’è eccome, è una realtà enogastronomica ormai consolidata, tanto che gli avventori percorrono anche due o trecento chilometri per venire a mangiare qui. Ecco perché oggi abbiamo deciso di conoscere meglio Raffaele Liuzzi, patron e chef della locanda. Di lui hanno parlato in tanti, persino il quotidiano nazionale La Repubblica, e lo hanno descritto come generoso, vulcanico, fantasioso, creativo, sorprendente, stravagante.
Come prima domanda, gli chiediamo quale aggettivo userebbe per descriversi. “Libero” risponde. “Qui facciamo una cucina contemporanea in bilico fra tradizione e originalità, con molte materie prime di Romagna e Puglia. Ma libertà è la parola chiave, quella che ci permette di esprimerci appieno, per fare sì che la cucina non diventi un semplice lavoro di copia e incolla.”
Questa libertà creativa, però, è un tesoro raggiunto con fatica e custodito con amore, dopo tanti anni di lavoro ed esperienze. “Già all’età di 7 anni lavoravo nella pasticceria dello zio. Tanta osservazione, piccole preparazioni. Poi il diploma alla scuola alberghiera e il titolo di executive chef nel 1989. Avevo 25 persone in brigata, una cucina di 500 metri quadri. Lì ho capito che questo lavoro è come un’orchestra.”
Nel senso che bisogna essere coordinati o che bisogna essere in tanti?
“Nel senso che la cucina è innanzitutto fatta di persone. Anche le guide, per esempio, non parlano mai delle persone. Dai grandi maestri puoi imparare le tecniche, ma il tesoro sono gli uomini e le donne che ti aiutano a creare i piatti – in brigata – e a comunicarli – in sala. Insomma è un lavoro di squadra in cui ogni dettaglio deve essere curato se vuoi stare bene tu, e se vuoi che stiano bene i clienti. E per stare bene bisogna osare, sorprendere.”
La sorpresa è un ingrediente fondamentale qui alla Locanda Liuzzi, e per questo il menù cambia di frequente, ma alcuni piatti non mancano mai. “Una ricetta che devo citare è il Passatello in guazzetto di polpo e cime di rapa. Perfetta fusione delle mie origini pugliesi e le mie fascinazioni romagnole. Il passatello mi ha sempre affascinato moltissimo, un piatto povero che si presta a tutto: brodo, asciutto, ma anche dolce, salato, cotture speciali, crumble… e poi i nostri Bon-bon di scampi con spuma di foie gras, caviale e gilet di campari, serviti con granita al melone. Apprezzatissimi.”
Ma dopo tanti anni, si può ancora essere entusiasti dello stesso lavoro?
“Non è mai lo stesso lavoro. Il segreto è la curiosità. Dal 2008 ho un orto a casa, mio papà era contadino. Pianto di tutto. Ultimamente ho provato con l’erba ostrica, non è cresciuta bene. Ci riproverò. Non si finisce mai di scoprire, di imparare.”
Si percepisce anche solo chiacchierando l’atmosfera calorosa, entusiasta della cucina di Raffaele. “Abbiamo scelto per questo il nome Locanda, per trasmettere un senso di calore, quello che si prova a Natale dagli zii… la cucina, parzialmente a vista, significa che sala e cucina si uniscono, il ristorante diventa una casa. Siamo molto attenti al cliente, ma lontani dai servizi ingessati di una certa ristorazione. Ci piace giocare, con le forme e i sapori.”
E con gli alcolici, magari.
“Seicento etichette. Tanti bianchi, diversi rossi che comunque si abbinano bene alla nostra cucina, che ama sapori decisi. Credo molto nelle bollicine italiane, sono cresciute tanto. E per chiudere il pasto niente distillati zuccherati, ma sì a whiskey torbati e rum agricoli. Sapori che convincono e sorprendono.”
Quindi il miglior complimento per te è quando un cliente dice che lo avete stupito?
“Il miglior complimento è la scarpetta. Le parole fanno piacere, ci mancherebbe, ma vanno e vengono. Il piatto vuoto canta!”